Una dozzina di ignoti hacker è penetrato nel centro di calcolo molto poco protetto e ha rubato centinaia di server che stanno minando bitcoin, prendendo ovviamente anche i bitcoin stessi, oltretutto non protetti né crittati. La polizia brancola nel buio.
Ma attenzione, perché in realtà la polizia un po’ di sospetti li ha trovati quasi subito e uno lo ha anche arrestato. E la storia è diventata una spettacolare sequenza di eventi, compresa un’evasione per niente rocambolesca (e il prigioniero si scopre che aveva anche tutto il diritto di farla), finita in una cella ad Amsterdam. Ma è meglio se andiamo con ordine.
Sindri Stefansson ha trentun’anni, piccoli precedenti per possesso di droga, guida in stato di ebbrezza e il furto dell’equivalente di un paio di migliaia di euro dalle slot machine di un bar di Reykjavik. Dice che da alcuni anni – circa sette – lavora come designer per un’app, ma in realtà non si sa di preciso cosa faccia e come si mantenga. Ha moglie e due figli piccoli. Dopo il furto dei server che minano bitcoin finisce quasi subito nella lista dei sospettati.
Viene arrestato dalla polizia islandese guidata dall’investigatore capo Olafur Kjartansson, un omone di cinquantacinque anni, capelli bianchi, sempre in giacca e cravatta, che pare uscito dalle pagine di un giallo di Arnaldur Indriðason, uno degli scrittori più popolari in Islanda. L’accusa è di aver rubato alcune centinaia di server utilizzati per minare bitcoin tra dicembre e gennaio da un magazzino a Reykjanesbær, tra l’aeroporto di Reykjavik e la cittadina di Borgarnes, sulla costa occidentale dell’Islanda.
Ma quando rocambolescamente fugge (e forse incontra il primo ministro islandese) il mistero s’infittisce. Anzi, sembrerebbe quasi un episodio di Black Mirror, se non fosse che all’improvviso tutto scompare, nessuno parla più di niente e la storia evapora così com’è comparsa all’improvviso sulla stampa di tutto il mondo. In rete, le speculazioni ovviamente si sprecano.
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